Oggi ci racconta la sua esperienza di viaggio in Giappone Francesco P.
P.
Un turista che gira per le strade di Tokyo resta affascinato da tante cose: dalle insegne multicolore e psichedeliche; dalla spropositata diffusione di cartellonistiche tutte manga inspired; dalla densità per metro quadrato di giapponesi sciamanti come api laboriose in un alveare; dai sorrisi sui loro volti che si manifestano appena incroci i loro sguardi; dalle scarpe di almeno una taglia più grande che indossano, conferendo loro quella camminata a baricentro sbilanciato in avanti e compensato dalle spalle tirate indietro, che fanno sì che incedano ciabattando sulla strada; dalla difficoltà ad interloquire in una lingua occidentale, al punto che chiedendo un collirio in una farmacia, venga proposto in vendita lo struccante per occhi, magari proprio a te, turista maschio hipster della East Coast con la barba e pieno di peli al punto da sembrare un lupo mannaro (che sia il fenotipo a loro sconosciuto che genera la confusione nelle farmaciste? NdR).
Ma non ho intenzione di descrivervi la dimensione visiva del mio viaggio nipponico.
Vi parlerò invece di quella sonora, che mi ha messo in crisi, divertito, innervosito, portato a livelli di stress così alto che ho dovuto imparare ad apprezzarne le peculiarità e a trovarne delle giustificazioni razionali per evitare di commettere atti di cui poi mi sarei potuto pentire.
Premetto che il mio disagio sarà comprensibile solo ai misofoni come me, ma, come nei sonetti del 1200, chiedo al lettore di comprendermi e di immedesimarsi in me, in modo da trarne diletto.
Ne ho viste tante di metropolitane nella mia vita: Londra, Parigi, Milano, Barcellona, Madrid, Praga, Budapest, Bruxelles, Amsterdam, Lisbona, New York. Tutte hanno un denominatore comune: il rumore, quella summa sgraziata e disarmonica di ferraglie che sbattono, cavi che si tendono, notifiche dalla voce metallica e sirene di avviso di chiusura porta. Se poi hai anche la sfortuna di essere un assiduo fruitore del passante ferroviario di Milano, sicuramente sei anche avvezzo allo stridio dei freni dei convogli in fermata alle stazioni, quel rumore così acuto da provocare dolore, che è un crimine contro l'umanità.
Ebbene, se ti aspetti tutto ciò anche a Tokyo, resterai deluso. I treni, lunghi e dalle livree caleidoscopiche, si fermano nelle stazioni senza far rumore, le porte si aprono sibilando appena e, nelle carrozze, segnaletiche (manga style, ovviamente) ti ricordano di togliere la suoneria del cellulare e di parlare sottovoce.
Ma qui si consuma il dramma: ogni linea ferroviaria, e, peggio ancora, ogni stazione, ha un suo dannato jingle musicale per ricordarti che il treno è in partenza. Che sia un'ouverture di un'opera lirica, un brano allegro suonato da violini in festa o la tristissima melodia che accompagna la morte di Lady Oscar e Andrè dell'ultima puntata dell’anime nella stazione di Kamakura, queste musiche non potranno che accompagnare il viaggiatore misofono occidentale abituato ai rumori e non alle canzoncine. E se considerate che nelle stazioni giapponesi dalle innumerevoli banchine i treni sono frequentissimi, il turista sprovveduto si ritroverà ben presto esasperato da tanta gaudenza, altro che la gioia della musica delle sfere nella Candida Rosa di Dante.
Superato il dramma musicale, se ne consuma poi un altro, soprattutto nelle stazioni delle metro, ma spesso anche nei centri commerciali e, in generale, nei luoghi ad alta frequentazione (che poi, a Tokyo, c'e un luogo non ad alta frequentazione?): il digital signage, ovvero, per noi comuni mortali, la pubblicità parlante. Ricordo ancora con terrore misofonico il digital signage della Tokyo Sky Tree, con una bestiolina azzurra dalla voce assurda che ripeteva a sfinimento lo stesso slogan, una nenia giapponese che mi è entrata nelle orecchie e che ero in grado di ripetere senza conoscere la lingua. Terrore.
E poi, per non dimenticare, il loro ARIGATO GOZAI (?) MAS, cantato in cassa nei supermercati, alla pasticceria la mattina e, con tanto di chiassoso scalpiccio di piedi di sushi men, maitre e cameriere nei sushi zanmai, tutti in riga sull'uscio ogni volta che un gruppo di commensali lascia il ristorante. Come non raccontarvi dello spavento alle urla dei giappi al ristorante mentre contribuivo all'estinzione dei tonni rossi del mar del Giappone, domandandomi se la coppia dietro cui gridavano avessero appena lasciato il locale senza pagare, (che poi, per me che sono nato e cresciuto a Bari, le urla dietro chi dimentica di pagare sono pure accettabili, ma solitamente seguite da un inseguimento, che invece non c’è stato, lasciandomi interdetto).
E infine, momento più truce della dieci-giorni nipponica, il momento di andare a mangiare il ramen, quel brodo luculliano con gli spaghetti, la carne o i frutti di mare, le uova e chissà cos'altro, nei tipici ristoranti che preparano solo quello. Ricordo ancora l'eccitazione mentre componevo sul jukebox all'esterno la mia pietanza, schiacciando a caso i bottoni che descrivevano gli ingredienti rigorosamente in giapponese, e sperando in dio che la combinazione fosse giusta. Conclusa l'ordinazione, la cameriera, in chiaro English-divide, mi faceva cenno di accomodarmi ad un tavolo a ridosso di una parete. Dopo qualche secondo, entrava nel ristorante un uomo, giovane e vestito di tutto punto, giacca e camicia lisciate alla perfezione, occhialini da vista super minimal, mocassini lucidi e stringati perfettamente. Seduto a meno di mezzo metro da me, attendevamo l’arrivo delle pietanze.
Ed è qui, amici misofoni, che il mio dramma si è consumato: nonostante i 100 ºC del brodo, il tipo si tuffò nella scodella, e meglio della più potente idrovora d'occidente, iniziò a succhiare con profondo diletto liquami, spaghetti, pezzi di carne, il tavolo, i bicchieri e, se avesse inspirato appena un po’ di più, forse anche me e tutto il mio gruppo.
Se l'OMS stilasse una lista dei rumori più molesti, sono confidente che al primo posto ci sarebbe il “risucchio da brodo/spaghetto”, seguito dal “sospiro di goduria da sorso di caffè o bevanda ghiacciata” e, al terzo posto “i rumori del colon traverso durante le riunioni”.
Tornando alla mia esperienza metafisica coi ramen, mentre l’idrovoro giapponese tutto stile continuava la sua attività di risucchio, io mi sentivo paralizzato, le bacchette mi tremavano in mano, il vapore saliva dalla mia scodella appannandomi gli occhiali, mentre muovevo gli occhi a destra e sinistra in cerca di conforto: insomma, una scena alla Stephen King. Fu allora che mi accorsi che vi era più di un risucchio, suoni che provenivano dagli alti giappi nella sala. Ero circondato. A quel punto, l’unico modo per sopravvivere era abbandonarmi pure io al risucchio, giacchè è risaputo che i torti che facciamo a noi stessi sono sempre più facili da perdonare rispetto a quelli che subiamo dagli altri.
Inutile dire che il mio ramen era favoloso, anche se mi ha provocato l’ustione del tratto gastro-esofageo e, a 40 anni, mi manderà in psicoterapia a causa del trauma misofono autoinfertomi…
Ne ho viste tante di metropolitane nella mia vita: Londra, Parigi, Milano, Barcellona, Madrid, Praga, Budapest, Bruxelles, Amsterdam, Lisbona, New York. Tutte hanno un denominatore comune: il rumore, quella summa sgraziata e disarmonica di ferraglie che sbattono, cavi che si tendono, notifiche dalla voce metallica e sirene di avviso di chiusura porta. Se poi hai anche la sfortuna di essere un assiduo fruitore del passante ferroviario di Milano, sicuramente sei anche avvezzo allo stridio dei freni dei convogli in fermata alle stazioni, quel rumore così acuto da provocare dolore, che è un crimine contro l'umanità.
Ebbene, se ti aspetti tutto ciò anche a Tokyo, resterai deluso. I treni, lunghi e dalle livree caleidoscopiche, si fermano nelle stazioni senza far rumore, le porte si aprono sibilando appena e, nelle carrozze, segnaletiche (manga style, ovviamente) ti ricordano di togliere la suoneria del cellulare e di parlare sottovoce.
Ma qui si consuma il dramma: ogni linea ferroviaria, e, peggio ancora, ogni stazione, ha un suo dannato jingle musicale per ricordarti che il treno è in partenza. Che sia un'ouverture di un'opera lirica, un brano allegro suonato da violini in festa o la tristissima melodia che accompagna la morte di Lady Oscar e Andrè dell'ultima puntata dell’anime nella stazione di Kamakura, queste musiche non potranno che accompagnare il viaggiatore misofono occidentale abituato ai rumori e non alle canzoncine. E se considerate che nelle stazioni giapponesi dalle innumerevoli banchine i treni sono frequentissimi, il turista sprovveduto si ritroverà ben presto esasperato da tanta gaudenza, altro che la gioia della musica delle sfere nella Candida Rosa di Dante.
Superato il dramma musicale, se ne consuma poi un altro, soprattutto nelle stazioni delle metro, ma spesso anche nei centri commerciali e, in generale, nei luoghi ad alta frequentazione (che poi, a Tokyo, c'e un luogo non ad alta frequentazione?): il digital signage, ovvero, per noi comuni mortali, la pubblicità parlante. Ricordo ancora con terrore misofonico il digital signage della Tokyo Sky Tree, con una bestiolina azzurra dalla voce assurda che ripeteva a sfinimento lo stesso slogan, una nenia giapponese che mi è entrata nelle orecchie e che ero in grado di ripetere senza conoscere la lingua. Terrore.
E poi, per non dimenticare, il loro ARIGATO GOZAI (?) MAS, cantato in cassa nei supermercati, alla pasticceria la mattina e, con tanto di chiassoso scalpiccio di piedi di sushi men, maitre e cameriere nei sushi zanmai, tutti in riga sull'uscio ogni volta che un gruppo di commensali lascia il ristorante. Come non raccontarvi dello spavento alle urla dei giappi al ristorante mentre contribuivo all'estinzione dei tonni rossi del mar del Giappone, domandandomi se la coppia dietro cui gridavano avessero appena lasciato il locale senza pagare, (che poi, per me che sono nato e cresciuto a Bari, le urla dietro chi dimentica di pagare sono pure accettabili, ma solitamente seguite da un inseguimento, che invece non c’è stato, lasciandomi interdetto).
E infine, momento più truce della dieci-giorni nipponica, il momento di andare a mangiare il ramen, quel brodo luculliano con gli spaghetti, la carne o i frutti di mare, le uova e chissà cos'altro, nei tipici ristoranti che preparano solo quello. Ricordo ancora l'eccitazione mentre componevo sul jukebox all'esterno la mia pietanza, schiacciando a caso i bottoni che descrivevano gli ingredienti rigorosamente in giapponese, e sperando in dio che la combinazione fosse giusta. Conclusa l'ordinazione, la cameriera, in chiaro English-divide, mi faceva cenno di accomodarmi ad un tavolo a ridosso di una parete. Dopo qualche secondo, entrava nel ristorante un uomo, giovane e vestito di tutto punto, giacca e camicia lisciate alla perfezione, occhialini da vista super minimal, mocassini lucidi e stringati perfettamente. Seduto a meno di mezzo metro da me, attendevamo l’arrivo delle pietanze.
Ed è qui, amici misofoni, che il mio dramma si è consumato: nonostante i 100 ºC del brodo, il tipo si tuffò nella scodella, e meglio della più potente idrovora d'occidente, iniziò a succhiare con profondo diletto liquami, spaghetti, pezzi di carne, il tavolo, i bicchieri e, se avesse inspirato appena un po’ di più, forse anche me e tutto il mio gruppo.
Se l'OMS stilasse una lista dei rumori più molesti, sono confidente che al primo posto ci sarebbe il “risucchio da brodo/spaghetto”, seguito dal “sospiro di goduria da sorso di caffè o bevanda ghiacciata” e, al terzo posto “i rumori del colon traverso durante le riunioni”.
Tornando alla mia esperienza metafisica coi ramen, mentre l’idrovoro giapponese tutto stile continuava la sua attività di risucchio, io mi sentivo paralizzato, le bacchette mi tremavano in mano, il vapore saliva dalla mia scodella appannandomi gli occhiali, mentre muovevo gli occhi a destra e sinistra in cerca di conforto: insomma, una scena alla Stephen King. Fu allora che mi accorsi che vi era più di un risucchio, suoni che provenivano dagli alti giappi nella sala. Ero circondato. A quel punto, l’unico modo per sopravvivere era abbandonarmi pure io al risucchio, giacchè è risaputo che i torti che facciamo a noi stessi sono sempre più facili da perdonare rispetto a quelli che subiamo dagli altri.
Inutile dire che il mio ramen era favoloso, anche se mi ha provocato l’ustione del tratto gastro-esofageo e, a 40 anni, mi manderà in psicoterapia a causa del trauma misofono autoinfertomi…
Insomma, il mio viaggio in Giappone è stato strabiliante, ho visto cose che non avrei potuto mai immaginare ed altre che ho scoperto essere esattamente come, fin da bambino, ho sempre visto nei manga. Ho avuto modo di vivere in una realtà bellissima, fatte di persone che vivono la vita in modo diverso, che hanno una esperienza della realtà completamente difforme da quella di noi europei. Gente che per certi versi non si è ancora abituata alla modernità, che guarda passa le ore a contemplare i fiori, che poi però fotografa con gli iPhone ricoperti dalle più gigantesche e morbidose cover che un designer avrebbe mai potuto immaginare.
E’ un viaggio che spero di reiterare, perché sono ancora molte le cose che vorrei vedere nella terra del Sol Levante, ma magari portandomi dietro degli ansiolitici per gestire la misofonia, ma, soprattutto, volando fino a Tokyo non in Economy.
E’ un viaggio che spero di reiterare, perché sono ancora molte le cose che vorrei vedere nella terra del Sol Levante, ma magari portandomi dietro degli ansiolitici per gestire la misofonia, ma, soprattutto, volando fino a Tokyo non in Economy.
Ma di quest’ultima esperienza ai confini della realtà, quella del volo, vi parlerò un’altra volta.
Grazie grazie grazie per il tuo fantastico articolo! ahhahaha mi hai fatto morire.
RispondiEliminada #Misonofona(chediociaiuti)'86